Copenhagen: il piano B del governo danese
Carta - Oscar Reyes | Wednesday, 09 December 2009
La bozza di dichiarazione finale preparata dal governo danese, che ospita il summit Onu sui cambiamenti climatici, ha scatenato la reazione rabbiosa delle delegazioni del sud del mondo e delle organizzazioni sociali. L'Onu cerca di minimizzare la portata del testo.

Le voci erano fondate. Per tutta la scorsa settimana, era un segreto di Pulcinella che il governo danese avesse già abbozzato una «dichiarazione politica» che potrebbe essere il principale risultato della Conferenza dell’Onu sui cambiamenti climatici, ora che un accordo a tutto tondo è fuori dai giochi. La bozza è filtrata all’esterno e ha fatto infurirare i delegati del sud del mondo e le organizzazioni della società civile.

L’ «Accordo di Copenhagen nell’ambito della Convenzione quadro dell’Onu sui cambiamenti climatici», così si intitola la bozza, potrebbe introdurre tetti alle emissioni basati su una percentuale del pil per tutti, tranne che per i paesi meno sviluppati [Ldc, l’acronimo in inglese]. In questo modo viene annullato lo spirito del Protocollo di Kyoto, che aveva stabilito una differenza tra i paesi industrializzati elencati nell’Allegato 1 e il resto del mondo. La bozza suggerisce anche l’aiuto tecnologico e finanziario ai paesi fuori dall’Allegato 1 – un principio guida dell’Accordo quadro Onu sui cambiamenti climatici [Unfccc] – sia ora condizionato alla loro effettiva capacità di rispettare complessi requisiti in fatto di emissioni.

L’Unfccc ha cercato rapidamente di limitare i danni, facendo circolare una dichiarazione del segretario esecutivo Yvo de Boer che affermava che la bozza era «un documenti avanzato dal primo ministro danese» e non un testo formale del processo negoziale dell’Onu.
 
La bozza ha suscitato la reazione rabbiosa dei delegati del sud del mondo. Lumumba Di-Aping, prsidente sudanese del G77 che raccoglie 132 paesi in via di sviluppo, ha detto al primo ministro danese Lars Lokke Rasmussen che aveva fallito il suo compito di padrone di casa neutrale e aveva invece scelto di «proteggere i paesi riccchi». L’emersione della bozza ha anche creato una protesta immediata dei membri dell’Alleanza panafricana per la giustizia climatica, che hanno sfilato attraverso il Centro Bella, dove si tiene la conferenza, scandendo «Due gradi è un suicidio. Un’Africa, un grado».

La preoccupazione nasce non solo dal merito della bozza, ma anche dal modo segreto e distorto con cui è stata redatta. La presidenza della conferenza, tenuta dal paese ospite, la Danimarca, ha il compito di cercare un compromesso, basato su estenuanti trattative sulle diverse bozze di accordo o di dichiarazioni finali. In questo caso, invece, la presidenza danese viene accusata non solo di aver passato il segno ma anche di aver cercato o sperato di anticipare e svuotare le decisioni dell’Onu con una proposta basata in parte sulle discussioni del Forum delle economie maggiori, un’iniziativa collegata strettamente al G20 e presieduta dal presidente statunitense Barack Obama.
 
Meena Raman, presidente onorario della sezione della Malaysia di Amici della Terra, spiega: «La bozza danese viola il principio democratico dell’Onu e minaccia i negoziati di Copenhagen. Discutendo il loro testo in incontri a porte chiuse con pochi, selezionati paesi, i danesi stanno facendo l’opposto di quello che ci si attende da un paese ospite. Il governo danese deve smetterla di fare blocco con le altre nazioni ricche. Al contrario, deve assumere come punto di partenza le posizioni dei paesi del sud del mondo, che sono i meno responsabili per il cambiamento climatico ma sono i più colpiti».
 
Raman Mehta, di Action Aid India, accusa apertamente il governo danese di «tradimento della fiducia».

La bozza danese è debole e vaga nelle sue ambizioni. Ripetendo l’obiettivo generale di contenere il riscaldamento globale entro i 2 gradi centigradi oltre i livelli pre-industriali, il testo fissa il target della riduzione delle emissioni del 50 per cento entro il 2050. Di questo, l’80 per cento dovrebbe essere a carico dei paesi industrializzati. Queste cifre sembrano decisamente meno impressionanti se si riportano alle emissioni pro capite, tanto che qualcuno stima che in questo modo il mondo industrializzato potrebbe continuare a inquinare più del resto del mondo secondo un rapporto di 3 a 5.
 
Gli obiettivi a breve termine sono ostentatamente più ambiziosi, con il suggerimento che le emissioni globali potrebbero raggiungere il picco attorno al 2020. In quello stesso paragrafo della bozza, però, si dice che il picco è stato già raggiunto nei «paesi sviluppati presi collettivamente». Questo dato è basato sugli ultimi numeri dell’Unfccc, che mostrano che i paesi dell’Allegato 1 sono adesso meglio posizionati rispetto agli obiettivi del Protocollo di Kyoto. Uno sguardo più attento, però, rivela che questo risultato è stato raggiunto sulla base dei tagli alle emissioni dovuti al collasso economico dell’Unione sovietica e dell’Est Europa nei primi anni novanta. Nel resto del mondo sviluppato, le emissioni sono ancora in crescita. Le proiezioni sul 2020 sono ulteriormente «aggiustate» calcolando una larga quantità di «emissioni evitate» attraverso l’acquisto di quote di emissioni dai paesi del sud.
 
Laddove il Piano di azione concordato nella conferenza di Bali sottolinea che i paesi del sud del mondo devono essere «appoggiati e sostenuti» nella loro capacità tecnologica, finanziaria e politica, la bozza suggerisce che queste misure di sostegno debbano essere «vincolate a robuste verifiche». Un’inversione che implica che le misure di supporto potrebbero essere bloccate fino a quando le verifiche non siano approvate. Anziché obbligare i paesi industrializzati a ripagare e restituire il loro debito ecologico verso il sud del mondo, questa modifica condiziona qualsiasi appoggio a complesse valutazioni tecniche.
 
Ciò che il testo della bozza non include è almeno altrettanto importante. Non ci sono cifre sui finanziamenti a lungo termine e non c’è alcuna indicazione che cifre possano emergere dalla conferenza. La sola cifra offerta è una proiezione di 10 miliardi di dollari annuali, una versione ridotta di quanto il primo ministro britannico Gordon Brown aveva proposto a novembre. Lumamba Di-Aping ha commentato: «Dieci miliardi di dollari non bastano nemmeno a comprare abbastanza bare».
 
Corrispondente a questa mancanza di impegno finanziario è l’impegno a gonfiare il mercato delle emissioni. Le proposte statunitensi consentirebbero la negoziazione di circa 1,5 miliardi di tonnellate di «quote» di CO2 l’anno, una cifra tale da consentire di evitare corrispondenti tagli nei processi produttivi del nord del mondo. E’ una quantità sette volte maggiore di quanto viene negoziato oggi attraverso il Clean Development Mechanism [Cdm] delle Nazioni unite.
 
Per quanto il linguaggio delle borse delle emissioni rimanga vago, le chiacchiere su «una ordinata ed efficace transizione verso un approccio complessivo rispetto a quello basato su singoli progetti» segnalano una cornice che potrebbe introdurre un nuovo ampio catalogo di «quote di settore», per esempio attraverso il Redd, lo schema di Riduzione delle emissioni da deforestazione e degradazione del suolo. «Mentre i paesi ricchi offrono pochissimo in termini di finanza pubblica, ai paesi poveri si fa arrivare il messaggio che l’appoggio per le misure di ‘compravendita’ delle emissioni è la sola possibilità di arrivare a un accordo», dice Payal Parkeh, climatologo che lavora per International Rivers.
 
Ciò che la bozza di Accordo di Copenhagen segnala soprattutto è la mancanza di volontà da parte dei paesi industrializzati di ridurre le proprie emissioni o di rispettare i propri obblighi finanziari e politici verso il sud del mondo. «Nonostane l’enfasi su Hopenhagen e la presunta volontà politica di ‘arrivare a un risultato’, questo negoziato rischia di non essere diverso da quelli precedenti», conclude Rhiya Trivedi, un membro della delegazione dei Giovani canadesi, «Potrebbe essere soltanto un altro round della lotta per il potere tra Nord e Sud». In altre parole, business as usual.

source: http://www.carta.org/campagne/ambiente/19081